Secondo le fonti storiche e letterarie i Brettii rappresentano una tribù staccatasi nel 356 a.C. dai Lucani, popolazione italica di stirpe osca proveniente dall’Abruzzo e dal Molise. La loro migrazione testimonia gli esiti della pratica del ver sacrum, un rito di iniziazione diffuso tra i popoli italici per cui un’intera generazione, appena maggiorenne, era costretta ad allontanarsi dal proprio territorio alla ricerca di nuove aree da occupare, vivendo lontano nei boschi per anni. Secondo Strabone (VI, 1, 4, c. 255) e Diodolo Siculo (XVI, 15, 1) i Brettii erano servi-pastori dei Lucani, dai quali si emanciparono in maniera forzata, dandosi al brigantaggio, e solo successivamente si riunirono in una confederazione.
I Brettii giunsero ad occupare la parte settentrionale della Calabria, organizzandosi intorno a due grandi città (metropoleis), Consentia e Petelia (l’odierna Strongoli) e presidiando gran parte delle aree collinari e paracostiere ioniche e tirreniche intorno alla Silua, l’odierna Sila.
La documentazione evidenzia la presenza delle due città e di altri insediamenti fortificati, posti in posizione di controllo militare e geografico delle naturali vie di comunicazione, in vita tra la seconda metà del IV e la metà/fine del III sec. a.C. intorno a cui si organizza, forse in forme cantonali (come emerge anche dalla monetazione confederale dei Brettii), un territorio popolato da una miriade di insediamenti agricoli o di piccole fattorie, disposti katà komas.
L’espansione dei Brettii è, del resto, collegata a numerose imprese militari, considerato anche il loro carattere guerresco e mercenariale, con la progressiva occupazione delle aree coloniali, soprattutto, Thurii, Crotone, ma anche Hipponion e Terina (Diod. Sic. XVI, 15, 2). A loro volta tenacemente resistettero in vario modo all’espansione romana in Magna Grecia; la fine della loro breve parabola va collegata direttamente alle vicende della guerra annibalica (219-202 a.C.), in cui la gran parte della popolazione brettia assunse una posizione filo-cartaginese e per questo fu pesantemente punita. Questo atteggiamento determinò, inoltre, una pesante propaganda denigratoria da parte dei Romani, che modificarono l’etnico (Bruttii in luogo di Brettii), esaltando presunti caratteri di rozzezza e di barbarie, evidente frutto soltanto di una campagna diffamatoria. Dalle fonti, infatti, si ricava una visione estremamente negativa di tali popolazioni, parlanti il greco ma anche l’osco, una lingua “oscura come la loro rinomata pece”.
La loro vocazione preminente, l’allevamento e la pastorizia, trovò una consacrazione nelle foreste silane e calabresi in genere, da dove ricavarono legname e la celebre pix bruttia, la pece impiegata in varia settori, soprattutto per la calafatura degli scafi delle navi oltre che per impermeabilizzare e sigillare i contenitori come le anfore da trasporto.
Ad un agricoltura di sussistenza si collegano anche la cultura materiale e la produzione delle ceramiche funzionali agli usi quotidiani, per la verità molto uniformata a quella delle colonie greche della Magna Grecia anche se con peculiarità produttive come nel caso delle armi e delle suppellettili metalliche, spesso frutto di ateliers locali. A tal proposito, la documentazione più probante proviene proprio da ambito funerario, dove i rituali di deposizione, in genere l’inumazione, e la composizione dei corredi sembrano in qualche modo collegati allo status sociale del defunto.
Tipologie standardizzate quali la cassa oppure la cappuccina di laterizi, spesso coesistono con veri e propri fenomeni di distinzione sociale e culturale, ovvero le tombe a camera in alcune aree territoriali (Cariati, Strongoli, Cosenza, Cirò, Oppido Mamertina, Camini, Laos), caratterizzate da struttura a camera ipogeica, con decorazioni architettoniche, e da corredi sepolcrali ricchi e diversificati.
I maschi in genere erano dediti alle pratiche di guerra ed al simposio, come emerge dalla presenza nei corredi di armi, sia d’offesa (i caratteristici cinturoni in bronzo, punte di lancia o giavellotto, armature complete di corazza bivalve, elmo frigio e schinieri) sia di difesa (lo strigile, legato al mondo degli atleti) in bronzo e ferro, i connotati tipici dei guerrieri italici.
Nelle tombe maschili la ceramica, soprattutto a figure rosse e a vernice nera, è caratterizzata da forme da parata oppure collegate al rituale del simposio, con vasi per bere (skyphoi, kylikes,coppe, coppette, patere) e per mangiare (piatti, patere).
Il tipico set in piombo connesso al banchetto di carne, composto da spiedi, graticola e coppia di alari in ferro oppure in piombo costituisce un richiamo simbolico ad un’altra pratica estremamente diffusa presso le popolazioni italiche, il banchetto di carne.
Le tombe femminili sono caratterizzate dalla presenza di ornamenti personali in oro, argento, bronzo e piombo di diversa tipologia (anelli, orecchini, bracciali, fibule) oltre a piccoli utensili o contenitori connessi alla cosmesi (lekythoi, unguentari, pissidi), vasi, soprattutto figurati, legati al rituale del matrimonio (hydriai, lebeti) o all’ambito domestico.